Uso ogni venerdì l’hashtag #passion4job (passione per il lavoro) postando un video (spesso un dialogo di un film) che mi suscita pensieri ed emozioni.
Ho vissuto sulla mia pelle la totale delusione e disaffezione nei confronti di un lavoro (o meglio di una condizione in un luogo di lavoro) che so cosa significhi essere vittima di un capo che non ti stima e che ti ostacola o ti ignora.
Mi ricordo bene la sensazione di inadeguatezza che ti pervade, il senso di colpa, l’incapacità psicologica di fare per bene semplicissime azioni anche routinarie, sentirsi come se non si fosse più capaci di fare nulla, quasi come vorrebbero dimostrare i nostri detrattori.
Ecco perché oggi assaporo ogni istante di una condizione (luogo) di lavoro totalmente diversa e opposta.
“Non si vive per lavorare” ma si lavora per vivere dicono i saggi.
Però ammettiamolo quando dobbiamo passare così tante ore al giorno per almeno cinque giorni a settimana è bene che il lavoro diventi piacevole o almeno accettabile.
La domenica sera da nostalgica e malinconica si dovrebbe trasformare in una “sera del dì di festa” serena e consapevole.
Molto dipende dal nostro atteggiamento e sicuramente mi ritengo fortunato e privilegiato.
Tuttavia oltre a fare ciò che mi piace, mi rendo conto con il tempo di avere maturato un atteggiamento più consapevole e più che altro “responsabile”.
Lungi da me la superbia o il volere ergermi a modello di nessuno.
Vorrei solo raccontare la mia esperienza, il mio vissuto e più che altro l’atteggiamento psico-fisico con cui mi approccio oggi, alla soglia dei quarant’anni al mio lavoro.
Fare della propria passione una professione è un obiettivo che si può conquistare, se lo si vuole realmente e se ci si impegna davvero.
Provare passione per quel che si fa è assolutamente appagante, ma non diminuisce lo stress e la fatica. Anzi talvolta diventa quasi un’ossessione.
Il voler fare le cose al meglio talvolta ha un qualcosa di patologico.
Tuttavia da libero professionista debbo testimoniare che il desiderio di perfezionismo deriva anche dal fatto che in ogni azione ci si gioca la propria reputazione ed il proprio curriculum.
Quindi probabilmente c’è un background di vissuto che ci porta ad essere quello che siamo, ma anche la situazione di oggi diventa determinante per scegliere il modello che vogliamo seguire.
La passione tante volte ti porta anche a strafare, atteggiamento magari che risalta agli occhi e che viene apprezzato ma che può anche portare a farsi sfruttare o che comunque può essere dannoso per il nostro lavoro e per l’equilibrio delle cose.
Però sono anche convinto che lasciarsi trascinare dalla passione sia importante, quando la passione però non cozza con precisione, puntualità e realizzazione dell’obiettivo.
Ma è indubbiamente l’atteggiamento con cui ci poniamo che può fare l’assoluta differenza.
Atteggiamento che da altri può anche essere interpretato (non so se vi è mai capitato) come stakanovismo/crumirismo o leccaculismo a seconda di chi osserva e giudica, tenendo lo stile esattamente opposto e in logica conservativa (del loro, chiaramente).
Ma tornando a noi, la Treccani definisce “passione” in questo modo:
“il termine passione si contrappone direttamente ad azione, e indica perciò la condizione di passività da parte del soggetto, che si trova sottoposto a un’azione o impressione esterna e ne subisce l’effetto sia nel fisico sia nell’animo”.
E’ vero se ci pensiamo. La passione la subiamo, non la scegliamo.
Però possiamo agirla e cercare di trasformarla in un modus operandi positivo nel nostro lavoro, trovando però equilibrio tra l’adrenalinica inclinazione al voler strafare e a fare le cose al meglio senza essere approssimativi, anche se siamo sempre di fronte a committenti in vena perenne di richieste urgenti.
Ma soprattutto (non so voi) in perenne lotta contro il tempo a causa dei classici imprevisti, persone che intralciano i nostri piani con quel irrefrenabile desiderio di riunioni o di pause non richieste, ma questo è un altro discorso…