Ho guardato un video di Vincenzo Cosenza che ho “sposato” dall’inizio sino alla fine (titolo compreso).
Mi trovo spesso a discutere con chi vorrebbe da me strategie di marketing e in sostanza, invece, preme per ottenere soluzioni pubblicitarie.
La letteratura del marketing racconta che E. Jerome McCarthy nel 1960 definì le “4 P“.
Come si nota dalla grafica la P di promozione è il processo pubblicitario che sta all’interno della strategia di marketing.
Quando cerco di spiegare al mio interlocutore questa differenza, uso questo schema, pensando all’autorevolezza di concetti che si sono tramandati nel tempo.
Tutto molto chiaro.
Nella pratica, si arriva subito alla richiesta di pensare a forme di strategie intese come pubblicitarie.
Non si può perdere altro tempo, bisogna mettere al centro il prodotto, l’azienda, il servizio e diffondere a macchia d’olio “Il verbo”.
Così quando ho letto l’articolo di Vincenzo Cosenza “Il marketing non è la pubblicità” mi sono illuminato e ho trovato finalmente qualcuno del settore che facesse emergere questa problematica.
Sono spesso combattuto e ho altrettanto discusso con chi nel passato mi accusava di essere allergico al mondo della pubblicità perché legato a quello del giornalismo duro e puro.
Ho sempre pensato alla pubblicità come un eco-sistema affascinante, ma che non fosse l’unica parte di un processo di comunicazione.
“Per comunicare devi farti vedere, devi mostrarti.”
Ad un certo punto delle mie riflessioni sono arrivato alla conclusione che un certo tipo di pubblicità non serva a nulla se non inserita in un progetto di ampio respiro e che veda la promozione come uno dei possibili aspetti da prendere in considerazione.
Si semplifica troppo il concetto di comunicazione, forse perchè siamo culturalmente legati a quello che la televisione ci ha fatto vivere e credere per tanti anni.
L’ecosistema che Seth Godin cita ne “La mucca viola” spiega esattamente a cosa siamo stati abituati: creo un prodotto – compro gli spazi pubblicitari – il fatturato aumenta.
Credere che oggi tutto sia così semplice e presumere che lo sia sempre stato è forse la semplificazione che Cosenza cita nel suo articolo.
Le ricerche mostrano come stiano profondamente cambiando le abitudini dei consumatori ed i loro “touchpoint” (punti di contatto) con aziende e prodotti/servizi.
Esistono ancora gli spot radiofondici, le pagine sui giornali e riviste, le pubblicità televisive, le finestre che interrompono la navigazione di un sito web, i banner, i “redazionali”, le promo prima o dopo un podcast o un video su Youtube, l’advertising su Facebook, Instagram e LinkedIn, come pure su Tik Tok.
Ma il fatto sta nel cercare di capire come poter attirare l’attenzione in modo sano, non forzato per riuscire ad instaurare un rapporto con il consumatore finale ed avere la sua fiducia nel tempo.
Per raggiungere questo scopo ambizioso, si rende necessario conoscere a fondo il nostro interlocutore tanto da non stancarlo, annoiarlo o (peggio) farlo scappare da noi.
Ma se parliamo a persone che non hanno necessità di ascoltare quello che abbiamo da dire ed il nostro contenuto non li riguarda, facilmente falliremo il nostro compito rischiando di disperdere denaro ed energie in attività che non risultano efficaci.
Quindi abbiamo bisogno di focalizzarci sul nostro cliente e capire come si muove digitalmente e non, che strade prende e da cosa è influenzato.
Questo a mio parere è il marketing, non il decidere il claim più impattante o decidere di piazzare ovunque il marchio.