Serve un cambiamento culturale?
Mi sono “scontrato” più di una volta con questa affermazione, che è uscita anche dalla mia bocca.
E che non mi rimangio.
Nel lavoro di comunicazione, spesso, si è costretti a fare i conti con dei modelli culturali che sopravvivono, ma che non sono affatto attuali né tantomeno corretti.
Fondamentalmente noi comunicatori abbiamo la necessità di trasmettere un messaggio, a chi può essere interessato a riceverlo, ovviamente.
Tuttavia, nonostante ci debba essere questa predisposizione, può essere che si incontrino alcune resistenze o dei cosiddetti “bias cognitivi”, che per estremizzare si possono tradurre in qualcosa come i luoghi comuni.
Non si può e non si deve “parlare” a tutti.
Ciascuno ha il suo pubblico di riferimento a cui potrà comunicare.
Estremizzando: se io fossi un avvocato penalista specializzato in truffe via web, farei fatica a coinvolgere nella mia comunicazione persone che hanno problemi con il proprio amministratore di condominio.
Assodato questo, che (ti assicuro) non è cosa affatto scontata, sarà fondamentale che chi ha bisogno di trasmettere contenuti ad altri lo faccia utilizzando un linguaggio comprensibile, smontando potenziali luoghi comuni o costrutti mentali o anche semplicemente opinioni che le persone si fanno, influenzate dalla loro storia e dalla loro condizione sociale.
Bene, pensa allora a quel avvocato che dovrà cercare di entrare in comunicazione con chi ha subito truffe online.
Pensa alla difficoltà che avrà nell’avere tra i suoi clienti persone che probabilmente hanno una formazione diversa dalla sua e delle conoscenze in altri campi.
La diversità è una ricchezza e non un problema, tuttavia sto cercando di immaginare quanto questo sbilanciamento sia complicato nel dover approcciare potenziali clienti con un problema, ma che ad esempio non hanno competenze digitali adeguate o una consapevolezza di un problema che in realtà potrebbero provare a risolvere.
Anche in questo caso (come in altri) la comunicazione deve diventare uno stimolo formativo.
Per colmare il gap che può esserci, la comunicazione deve aiutare e dare dei riferimenti, non nozionistici o meramente tecnici, ma almeno di approccio mentale e di conoscenza di primo livello.
Solo grazie a questa si instaurerà un rapporto fiduciario e probabilmente strapperemo un contratto a nostro vantaggio, ma gettando delle basi affinchè risulti vincente per noi e per chi lo ha sottoscritto con noi.
Non possiamo cambiare il mondo, però renderlo un pochino migliore per noi e per qualcun altro forse sì e con questo contribuire a non abbruttirlo, almeno.
Anche se non siamo gli inventori delle “pubblicità progresso” o delle campagne sociali più trainanti e di successo della storia, anche se non siamo Martin Luther King o Steve Jobs, abbiamo però un nostro potenziale.
Simon Siniek ci spiega come andare alla ricerca dei nostri perché, affinché comunicando quelli le persone ci seguano.
Ecco, molto spesso, basta trovare le motivazioni che ci spingono a fare quello che facciamo per essere convincenti nei confronti di un potenziale pubblico.
Ottenere dei cambiamenti culturali non è un qualcosa che si può raggiungere con un tweet.
Tuttavia, far si che la nostra comunicazione punti ad un qualcosa che vada al di là dei nostri prodotti o servizi è la strada che dovremmo percorrere.
Perché, se ci pensi, solo se otterremo un minimo cambio di prospettiva da parte del nostro interlocutore, che lo coinvolgeremo nel nostro viaggio.
Attenzione, però.
Non vorrei indirizzarti verso alcune strade che non considero particolarmente etiche né efficaci.
Non ti sto parlando di persuasione, di giochetti, di trucchi…
Ma di promuovere un cambiamento attraverso la tua persona e quel che proponi.
Che è cosa ben diversa, se non vendi del fumo.
Quando pensiamo alla nostra strategia di comunicazione, quindi, giochiamo a carte scoperte con noi stessi e mettiamoci in gioco, ma con la consapevolezza di dover avere pazienza, costanza e di diventare come quelle gocce che scavano lentamente la pietra e non dei fuochi d’artificio.